La prima disciplina organica in materia di “Acque” nell’ordinamento italiano risale alla legge 319/1976, c.d. Legge Merli, con la quale si avverte per la prima volta l’esigenza di apprestare un’adeguata tutela alla risorsa idrica. La legge Merli indicava in maniera dettagliata le sostanze inquinanti, ponendo dei limiti al loro scarico nelle acque e alla loro concentrazione. Con riferimento agli scarichi, la ripartizione degli stessi ai fini della relativa disciplina e del conseguente trattamento sanzionatorio era fondata sulla loro provenienza; si disponeva inoltre che lo scarico effettuato in assenza della necessaria autorizzazione, concessa esclusivamente agli scarichi rispettosi dei limiti di accettabilità, fosse sempre soggetto a sanzione penale.
Considerevoli difficoltà interpretative derivavano, tuttavia, dall’assenza di una definizione legislativa di “scarico”, cui venne posto parziale rimedio dalla copiosa normativa intervenuta fra la metà degli anni ‘70 e i primi anni ‘80 in ossequio dell’intervento di numerose norme di origine comunitaria. Fra queste, la Direttiva 80/778 CEE, concernente la qualità delle acque destinate al consumo umano, cui si diede attuazione con D.P.R. 236 /88. Questa legge regolamentava la qualità delle acque destinate al consumo umano e definiva le concentrazioni massime ammissibili e i valori guida per differenti parametri chimici e microbiologici, indicati nella norma stessa. Stabiliva inoltre aree di salvaguardia della risorsa idrica, distinguendo zone di tutela assoluta, zone di rispetto e zone di protezione.
Con la Legge n. 36 del 5 gennaio 1994, (la cosiddetta Legge Galli), relativa alle disposizioni in materia di risorse idriche, è stato avviato in Italia un profondo processo di riorganizzazione della materia. Una delle principali innovazioni introdotte dalla legge fu rappresentato dal tentativo di superare la frammentazione gestionale che caratterizzava il settore dei servizi idrici; a questo scopo si procedette all’identificazione di ambiti territoriali ottimali (ATO), all’interno dei quali pervenire ad una gestione unitaria ed integrata del ciclo idrico, inteso come l’insieme dei servizi di captazione, adduzione e distribuzione di acqua ad usi civili, di fognatura e depurazione delle acque reflue. In seguito, particolare rilievo assunse anche la direttiva CEE n. 91/271, destinata al tema del trattamento delle acque reflue urbane e successivamente divenuta punto di riferimento centrale per l’elaborazione del nuovo TU in materia di acque, il D.lgs. 152/1999, “Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della Direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti dalle fonti agricole”.
Questo decreto, con le sue successive integrazioni, si poneva quale obiettivo quello di tutelare tutte le acque (superficiali, marine e sotterranee) per prevenire e ridurre l’inquinamento, attuare il risanamento dei corpi idrici inquinati, conseguire un miglioramento dello stato delle acque e perseguire usi sostenibili e durevoli delle risorse idriche, prevedendo una ripartizione delle competenze a livello centrale (Stato) e periferico (Regioni, Province, ecc) e un sistema di sanzioni amministrative e penali per garantire il rispetto della normativa.
Per quanto riguarda gli scarichi, il decreto individuava tre tipologie di acque reflue: industriali, domestiche e urbane, fissando per ciascuna una regolamentazione differente. Gli scarichi vennero differenziati in: scarichi sul suolo, vietati salvo particolari eccezioni; scarichi nel sottosuolo e nelle acque sotterranee, generalmente vietati, ma con eccezioni, previa autorizzazione; scarichi in acque superficiali, diversamente disciplinati a seconda della tipologia. Si prevedeva, comunque, che tutti gli scarichi dovessero essere autorizzati e che la competenza al rilascio delle relative autorizzazioni spettasse alle Province, ad eccezione degli scarichi in pubblica fognatura, per i quali era richiesta l’autorizzazione dell’ente gestore.
Invero, a seguito dell’introduzione di tale normativa è divenuto oltremodo necessario tracciare una definizione di scarico, al fine di individuare il confine per l’applicazione del “Decreto Ronchi” sui rifiuti o il “decreto acque”, tracciata di poi attraverso la suddivisione tra “rifiuto liquido”, che resta soggetto al D.lgs. 22/1997 ai sensi del suo articolo 8 dalla fase di produzione alla fase di smaltimento all’interno di un impianto di trattamento acque reflue, ed “acque reflue” (cioè acque di processo o di scarico) che restano escluse dal D.lgs. 22/1997 ai sensi del medesimo articolo 8. Tali acque reflue sono considerate “rifiuti liquidi” solo nel caso in cui siano trasportate, mediante un vettore, dal produttore all’impianto.
Il sistema sanzionatorio introdotto dal D.lgs. 152/99 consisteva nel delineare come penalmente rilevanti tutte le violazioni della nuova normativa ritenute tali da arrecare danno o pericolo di danno all’ambiente, sulla base di due elementi fondamentali: la mancanza di autorizzazione ed il superamento dei limiti tabellari. La gran parte delle disposizioni contenute nell’art. 59 configuravano ipotesi di reati comuni, ossia riferibili a “chiunque” effettuasse uno scarico qualificabile come di acque reflue industriali.
Quanto all’elemento soggettivo, trattandosi di fattispecie contravvenzionali, non era sufficiente ad integrare l’elemento psicologico della fattispecie la coscienza e volontà della condotta, occorrendo altresì che questa fosse almeno colposa.
In questo contesto si inserì la Direttiva Quadro sulle Acque 2000/60/CE, i cui obiettivi principali erano conformi alle finalità complessive della politica ambientale della Comunità, ovvero contribuire a perseguire salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità ambientale, nonché l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, muovendo dai principi della precauzione e dell’azione preventiva, dal principio della riduzione, soprattutto alla fonte, dei danni causati all’ambiente e dal principio “chi inquina paga”. La Direttiva Acque mirava ad ottenere la graduale riduzione delle emissioni di sostanze pericolose nelle acque per raggiungere l’obiettivo finale di eliminare le sostanze pericolose prioritarie.
Da ultimo, la disciplina in materia di tutela delle acque è in gran parte confluita all’interno del D.Lgs. n. 152 dell’ aprile 2006 (norme in materia ambientale), normativa di cui una sezione importante è dedicata appunto alla tutela delle acque dall’inquinamento e alla gestione delle risorse idriche. L’intero territorio nazionale, ivi comprese le isole minori, è ripartito in distretti idrografici; in ciascun distretto idrografico è istituita l’Autorità di bacino distrettuale ed adottato il Piano di bacino distrettuale, che è lo strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo mediante il quale sono pianificate e programmate le azioni e le norme d’uso finalizzate alla conservazione, alla difesa e alla valorizzazione del suolo ed alla corretta utilizzazione della acque, sulla base delle caratteristiche fisiche ed ambientali del territorio interessato.
Gli obiettivi perseguiti dalla norma sono: prevenire e ridurre l’inquinamento e attuare il risanamento dei corpi idrici inquinati; conseguire il miglioramento dello stato delle acque ed adeguate protezioni di quelle destinate a particolari usi; perseguire usi sostenibili e durevoli delle risorse idriche, con priorità per quelle potabili; mantenere la capacità naturale di autodepurazione dei corpi idrici, nonché la capacità di sostenere comunità animali e vegetali ampie e ben diversificate; mitigare gli effetti delle inondazioni e della siccità contribuendo quindi a garantire una fornitura sufficiente di acque superficiali e sotterranee di buona qualità per un utilizzo idrico sostenibile; proteggere le acque territoriali e marine; impedire un ulteriore deterioramento, proteggere e migliorare lo stato degli ecosistemi acquatici, degli ecosistemi terrestri e delle zone umide direttamente dipendenti dagli ecosistemi acquatici sotto il profilo del fabbisogno idrico.
La normativa comporta pertanto il superamento della pregressa ripartizione di disciplina in materia di tutela e razionale impiego della risorsa idrica, in favore di un concetto onnicomprensivo della stessa, sulla base del presupposto della necessità di una normativa organica al fine di garantire una più efficace ed efficiente tutela della risorsa, intesa come bene strategico per la tutela complessiva dell’ambiente e per lo sviluppo sostenibile.