Nel 2015 per la prima volta nella storia industriale un crollo del prezzo del petrolio non è stato seguito da un declino della produzione. Certo, nonostante la riduzione di prezzo sia stata imponente (-75$ in 18 mesi circa) non è stata certamente la più rapida: nel 2008 con il default di Lehman Brothers il prezzo del petrolio è crollato dal valore stratosferico di 147$ fino a 35$ in 6 mesi. Subito dopo, per via della recessione globale, la produzione è diminuita di circa 1 milione di barili al giorno (b/g) e questo ha aiutato il recupero del prezzo in pochi mesi.
Ad inizio 2016 la produzione mostra invece una salutare crescita: nel 2015 nel mondo sono stati estratti 95 milioni b/g contro i 93 nel 2014. Centinaia di petroliere a pieno carico sono in attesa ai principali hub di smistamento globali: le nazioni esportatrici stanno sperando un improbabile rimbalzo del prezzo e sono disposte a pagare i noli piuttosto che vendere in perdita. Inoltre le capacità di stoccaggio nei Paesi industrializzati sono al limite. Questo scenario bizzarro sembra apparentemente in contrasto con le ragionevoli preoccupazioni di un’inadeguata crescita della produzione mondiale (peak oil) a fronte degli alti prezzi dello scorso decennio.
Vi sono diversi fattori che hanno contribuito a questo fenomeno di isteresi nella crescita della produzione petrolifera. L’esplosione del fenomeno dello shale oil USA è sicuramente la causa principale, dato che ha cambiato il volto del mercato ed ha aggiunto 5 milioni b/g all’offerta mondiale. Nel 2010-2014, il prezzo sopra i 100$ ha stimolato forti investimenti in riserve di difficile estrazione: questi giacimenti erano in larga parte conosciuti fin dagli anni ’50, ma sono stati ignorati dall’industria per via dalla bassa probabilità di ottenere dei profitti, visti gli alti costi di estrazione. I fondi di investimento USA, inondati dalla liquidità FED a basso costo dei Quantitative Easing ed in frenetica ricerca di rendimenti in un contesto di tassi zero, hanno finanziato indiscriminatamente lo shale oil.
Lo scenario geopolitico ha fatto il resto: il cartello petrolifero dell’OPEC ha di fatto cessato di esistere sotto la spinta centrifuga degli interessi particolari dei Paesi produttori, ognuno interessato a mantenere la propria quota a discapito degli altri. L’Arabia Saudita, il leader storico nella produzione di petrolio, ha incoraggiato questa politica di dumping del prezzo, con l’obiettivo dichiarato di buttare fuori dal mercato i produttori USA. Questa strategia, benché razionale, non ha dato ancora i frutti sperati: i fondi speculativi hanno garantito ai trivellatori USA un flusso costante di finanziamenti a basso costo, nonostante gran parte dell’industria operi in perdita da almeno un anno.
È possibile che il ciclo di rialzo dei tassi di interesse negli USA possa essere il passo decisivo verso la fine dell’esperimento dello shale oil. Infatti, i fondi speculativi esposti nel settore petrolifero stanno subendo delle forti perdite, che potrebbero interrompere i flussi necessari a tenere a galla i trivellatori già in difficoltà.
Quello che è certo è che il crollo del petrolio ha innescato un’ondata di deflazione in tutti i Paesi OCSE, più severa nell’Eurozona. Già strette nella morsa di un persistente credit crunch, le imprese dell’Eurozona hanno visto la profittabilità crollare dal 2011 durante il processo di disinflazione. A dicembre 2015 l’inflazione dell’Eurozona è rimasta in territorio negativo, dato coerente con l’ulteriore calo del prezzo del petrolio di un altro 15%. La deflazione ha “sabotato” le strategie di espansione monetaria delle banche centrali, desiderose di utilizzare l’inflazione per alleggerire il peso dei debiti pubblici OCSE. Certamente non si tratta di un obiettivo “politicamente corretto” negli ambienti ufficiali, ma le agenzie del debito europea accoglierebbero con favore più inflazione per abbattere il fabbisogno finanziario.
Anche in questo caso c’è un circolo vizioso all’opera. Come sembra intuitivo, la riduzione dei costi dell’energia ha aiutato il recupero dei consumi e della produzione industriale (e.g. i consumi delle famiglie tedesche hanno mostrato un’espansione dello 0,6% nel terzo trimestre 2015), ma non è stato abbastanza per creare pressione sui prezzi. Al contrario, la débâcle del petrolio e di altre materie prime (rame, ferro, argento) ha compresso le aspettative di inflazione sul lungo termine. In altri termini, il settore finanziario fonda le sue strategie di trading e copertura su prezzi in discesa.
Dati i presupposti, le iniziative della BCE non possono avere successo. La BCE e le sue “twin sisters” dei Paesi OCSE possono prestare denaro ad interessi zero alle banche, al fine di stimolare i prestiti all’economia reale. Tuttavia, le banche non hanno incentivi ad investire al di fuori del sistema finanziario, dato che in deflazione la profittabilità degli investimenti nell’economia reale è bassa (e questo non sorprende: con prezzi fermi è difficile realizzare guadagni). Inoltre, il rischio dell’investimento resta alto e la normativa bancaria internazionale impone riserve a protezione dei crediti deteriorati.
Per una banca è più semplice acquistare titoli di Stato che erogare prestiti: non solo, con il Quantitative Easing la BCE è pronta ad acquistarli, ma le autorità europee hanno un occhio di riguardo verso i titoli governativi e non richiedono l’istituzione di riserve. Il risultato finale è semplice: la liquidità rimane intrappolata nel sistema finanziario, il credito non si espande e l’inflazione resta ad un punto morto.
Il 3 dicembre 2015, il mercato ha punito il QE 2.0 di Draghi, ritenendolo “non abbastanza” per combattere la deflazione. In realtà, anche se le aspettative di mercato fossero state soddisfatte, è assai improbabile che la BCE avrebbe ottenuto risultati migliori di quelli (scarsi) attuali. Secondo una regola che continua a valere nell’odierna economia globalizzata, è sempre l’oro nero che detta il ritmo dell’inflazione.