Nel nuovo “Libro bianco” l’Europa fissa, volutamente, obiettivi blandi e incompleti.
Non è stato un bel giorno per l’Europa il 22 gennaio 2014, quando è stato presentato dalla Commissione Europea il Libro Bianco sull’energia e il clima. Mentre gli effetti del cambiamento climatico si fanno sentire sempre di più e nel Vecchio continente gli incentivi alle rinnovabili, dopo tutti gli sforzi fatti, vengono bloccati esattamente quando queste fonti sono alla soglia della maturità di mercato, ecco che la governance europea in materia innesta la retromarcia, spacciando quella che è un’abdicazione ai precedenti obiettivi al 2020 come una vittoria.
I nuovi obiettivi al 2030 contenuti nel documento infatti si limitano a registrare il trend esistente circa la riduzione delle emissioni e le rinnovabili, aprendo grandi varchi ad altri scenari energetici e ignorando l’efficienza energetica. Insomma uno scenario Bau (Business As Usual) che nemmeno la pur prudente Agenzia Internazionale per l’Energia (Iea) osa immaginare.
E i numeri sono a dimostrarlo. Il nuovo obiettivo principale è quello della riduzione delle emissioni di CO2 del 40% rispetto al 1990 cosa che è raggiungibile senza grandi sforzi visto che già ora siamo al 27% sia per il calo in tutta Europa della attività manifatturiere energivore, sia per l’applicazione di tecnologie energy saving in moltissimi settori, senza contare l’importante contributo delle rinnovabili.
Si tratta di un target giudicato ampiamente insufficiente dalle associazioni ambientaliste e dai climatologi secondo i quali il Vecchio Continente avrebbe dovuto puntare almeno al 55% per fare la propria parte al fine di mantenere l’aumento di temperatura al di sotto dei 2°C entro il 2100.
E sempre la Iea è di quest’opinione visto che da almeno un paio d’anni ha lanciato l’allarme circa il fatto che entro il 2017, di questo passo, avremo a livello mondiale esaurito lo stock di CO2 da emettere entro il 2035 per contenere l’aumento di 2 °C entro fine secolo.
E pensare che secondo il commissario europeo all’Energia, Gunther Oettinger questo 40% di riduzione è generoso, visto che: «avevo chiesto un 35%, un obiettivo meno ambizioso» ha affermato in conferenza stampa. La marcia indietro dell’Europa in fatto d’emissioni nasce da una concomitanza di fatti che si sono svolti, sottotraccia e all’ombra dell’opinione pubblica negli ultimi due anni.
Prima di tutto c’è la fortissima pressione dei settori industriali meno innovativi del Vecchio Continente, i quali però pesano sia sul fronte politico, sia su quello dei fatturati.
Si tratta delle industrie energivore e delle utilities energetiche europee. Queste ultime, le italiane Enel ed Eni, la francese GDF Suez, le tedesche E.ON e RWE, la svedese Vattenfall e la spagnola Iberdrola, si sono raggruppate in una lobby informale dal nome Magritte e hanno fatto grandi pressioni in quest’ultimo anno su Bruxelles, allarmate anche da alcuni studi come quelli del gruppo bancario USB, dell’Edison Institute e di Citigroup, che vedono il rischio sopravvivenza per le utilities energetiche, sia per la riduzione della domanda dovuta all’efficienza, sia per la diffusione delle rinnovabili, specialmente in prospettiva dello sviluppo dell’autoconsumo.
Pratica guarda caso “messa sotto accusa” da diversi soggetti, in alcuni casi come l’Italia persino dalle autorità per l’energia, sia in Europa sia negli Usa.
Altro fattore da non sottovalutare è il nucleare che nonostante si consideri, a livello d’opinione pubblica, abbandonato, grazie allo stop in Germania voluto dalla Cancelliera Merkel dopo l’incidente di Fukuschima, è vivo e vegeto.
L’atomo cova sotto le ceneri dei reattori ancora incandescenti nipponici, con due pesi massimi nella comunità europea come Francia e Gran Bretagna che soffiano sulla fissione.
Sta andando avanti spedito, infatti, il programma di sostituzione di sei vecchie centrali nucleari britanniche con altrettante francesi di ultima generazione Epr e il grimaldello per realizzare l’operazione, che per essere sostenibile sul fronte economico-finanziario necessita di incentivi che porteranno il prezzo del MWh da nucleare a 144,1 euro nel 2023, data in cui si prevede l’avvio del primo reattore.
L’operazione è stata definita da alcuni analisti della City Flabbergasted ossia sbalorditiva anche in funzione del fatto che l’extra costo sarà indicizzato all’inflazione per tutta la vita dei reattori, ossia sessanta anni.
E il varco per l’atomo in Gran Bretagna viene lasciato aperto proprio dal fatto che la riduzione delle emissioni vincolante non è legata a tecnologie specifiche, visto che l’obiettivo del 27% sulle rinnovabili è vincolante per l’Europa, ma non per i singoli paesi e che quello sull’efficienza energetica semplicemente non esiste.
Quindi la Gran Bretagna potrà fare meno rinnovabili, tanto il target a livello continentale sarà centrato ugualmente visto che è talmente basso da essere “inerziale” e non c’è obbligo d’efficienza. E riprova di ciò c’è la dichiarazione illuminate del presidente della Commissione europea José Manuel Durão Barroso che ha affermato: «le energie rinnovabili «non sono un obiettivo in sé».
Ma non basta. L’utilizzo del nucleare in chiave di una riduzione dell’emissione di CO2 sarà il fatto che spazzerà l’unica resistenza al progetto nucleare britannico, ossia quella degli aiuti di stato a Edf che gestirà gli impianti, con un ritorno sul capitale (Roe) prossimo al 35%, visto che l’extracosto del MWh passerà sotto la voce “incentivi per la riduzione della CO2”.
Ma non basta. Nelle pieghe del Libro bianco c’è anche lo shale gas il cui sfruttamento fa gola ai britannici che possiedono le tecnologie e ai paesi dell’Est che ne hanno disponibilità. Sempre Barroso, infatti, ha affermato in proposito che :«gli Stati membri possono decidere se sfruttare questa risorsa o no».
In conclusione la scelta della Commissione europea sembra essere di retroguardia, legata a un’industria in decadenza e con un orizzonte di breve periodo, ma sopratutto può fermare uno dei pochi comparti industriali come quello delle rinnovabili e dell’efficienza energetica in grado di assicurare una crescita duratura sul fronte manifatturiero.
Il tutto per difendere interessi corporativi delle lobby delle energie fossili