Dopo il mezzo fallimento a Doha della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, si apre una seconda fase del Protocollo di Kyoto, che copre però appena il 15% delle emissioni complessive di CO2.
La diciottesima Conferenza della Parti della Convenzione sul Clima (Cop 18) che si è tenuta a Doha dal 27 novembre all’8 dicembre si è chiusa con l’ennesimo documento di transizione, “Doha climate gateway”, che dovrebbe spalancare le porte ai prossimi accordi internazionali sulle politiche ambientali. Un nuovo rinvio, quindi, dopo i fallimenti di Copenhagen, Cancun e Durban. L’unica luce verde è che si è deciso di estendere fino al 2020 il protocollo di Kyoto, la cui prima fase è terminata lo scorso 31 dicembre.
Diversi Paesi, tra cui Canada, Giappone e Russia, hanno tuttavia rifiutato di partecipare alla seconda fase di Kyoto; così gli sforzi dell’Unione europea, dell’Australia e delle altre Nazioni che hanno siglato il Kyoto due, rischiano di portare a poco. Il Protocollo coprirà appena il 15% delle emissioni complessive di CO2. Il rimanente 85% delle emissioni, prodotte da paesi come USA e Cina, saranno gestite all’interno del percorso negoziale nato a Durban un anno fa: si prospetta un regime non vincolante ma di “pledge and review”, ossia impegni volontari da verificare collettivamente.
Non si sono fatti passi avanti sulla forma legale di nuovo accordo globale da rendere operativo entro il 2020, e rimane quanto deciso nei minuti finali a Durban: “protocollo, strumento legale o risultato concordato dotato di forza legale”.
Pochi paesi (Monaco, Ucraina, Kazakistan) hanno preso impegni di riduzione delle emissioni al 2020 più ambizioni di quanto già annunciato.
Troppo poco per contenere nei due gradi centigradi il surriscaldamento terrestre. Di questo avviso il ministro dell’Ambiente Corrado Clini: «Si sarebbe potuto ottenere di più se gli Usa, dopo la rielezione di Obama, avessero preso degli impegni, ma loro ci dicono che sono bloccati dal Congresso a maggioranza repubblicana». A pesare sul risultato è stata la crisi: «Il problema è che molti hanno messo i cambiamenti climatici in basso nell’agenda, con la scusa della crisi – ha sottolineato Clini – ma è un errore, perché i disastri causati dai cambiamenti climatici mettono a rischio anche l’economia, quindi i due discorsi vanno portati avanti insieme».
Doha ha rappresentato il momento di passaggio fra il vecchio e il nuovo regime delle negoziazioni sul clima, secondo Connie Hedegaard, Commissaria Europea alle politiche sul Clima. «Non è stata un’oasi nel deserto», secondo il Climate Action Network. Per Stefano Caserini, titolare del corso di mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano, «sia che si tratti di Stati governati da oligarchie interessate principalmente a perpetuare il loro potere politico ed economico, o di democrazie bloccate dal potere delle lobby dell’industria fossile, gli interessi monetari sul breve periodo sembrano gli obiettivi alla fine irrinunciabili, magari nascosti da qualche concessione occasionale o da cortine fumogene procedurali; e di conseguenza le speranze di accordi seri di riduzione delle emissioni (riduzioni che, a parole, sono declamate come obiettivi da perseguire) non possono che essere minime».
La delusione delle associazioni
Il Wwf chiede ai governi di assumere piani di rapida decarbonizzazione e di avere il necessario coraggio nei negoziati internazionali. «Gli egoismi e i veti di alcuni paesi non fanno vincere nessuno ma fanno perdere tutti. Così il piatto è vuoto di impegni di riduzione delle emissioni e di sostegno finanziario nei confronti dei paesi più vulnerabili che vanno aiutati a svilupparsi senza inquinare» spiega Maria Grazia Midulla, responsabile Clima ed Energia del Wwf Italia, che ha seguito in Qatar l’intera conferenza. «Il risultato positivo è che si sia andati al rinnovo del protocollo di Kyoto , unico strumento legale obbligatorio attualmente in vigore. Tuttavia preoccupa la palese incapacità dei governi di assumere una vera leadership per affrontare quella che è la più grave minaccia per il pianeta come lo conosciamo».
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I governi nazionali, evidentemente, antepongono i loro interessi a breve termine a quelli a lungo termine di tutto il pianeta. Il tifone Pablo, nelle Filippine, ha mostrato i costi dei cambiamenti climatici in termini di vite umane. Gli Stati Uniti rimangono fuori dal Protocollo e, nonostante i recenti disastri dell’uragano Sandy e un’opinione pubblica sempre più schierata sul tema dei cambiamenti climatici. In questo quadro, le grandi economie emergenti come Cina, India, Sud Africa e Brasile ancora non dimostrano il loro potenziale positivo di intervento. Tutti potrebbero prendere esempio dalla Repubblica Dominicana che, non avendo neppure una minima parte delle loro risorse economiche, si è impegnata a ridurre del 25% le emissioni di gas serra al 2030 rispetto ai livelli del 1990, unilateralmente e attraverso fondi nazionali.
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Tre passi avanti
In sintesi i principali passi in avanti del “Doha climate gateway” sono:
- l’approvazione di un secondo periodo di impegno del Protocollo di Kyoto dal 2013 al 2020. Questo è importante per la sopravvivenza del Carbon Market che è una realtà importante in Europa e che in futuro potrà collegarsi ad altri Carbon Market di paesi non europei come l’Australia.
- l’approvazione di un meccanismo sul “Loss and Damage”, ossia le azioni per prevenire e porre rimedio ai danni causati dai cambiamenti climatici.
- la conclusione dei lavori del Gruppo di Lavoro sugli impegni a lungo termine che ha reso operativi alcuni elementi riguardanti l’adattamento ai cambiamenti climatici (previsti dal Bali Action Plan e dal Cancun Adaptation Framework) e il trasferimento delle tecnologie pulite.{/AF}
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Doha chiama Italia
L’Italia fragile dei precari equilibri idrogeologici, sottoposta ai fenomeni meteorologici estremi provocati o amplificati dai cambiamenti climatici ha bisogno di atti concreti che dimostrino nei fatti un cambiamento di rotta. CAI – Club Alpino Italia, FAI – Fondo Ambiente Italiano, Italia Nostra, Legambiente, Touring Club Italiano e WWF, chiedono che l’Italia si doti di una Strategia Nazionale per l’Adattamento ai Cambiamenti Climatici, già adottata da 13 Paesi membri dell’Unione Europea su 27, basata su precise priorità di intervento:
- mettere in campo un’efficace politica di gestione del territorio per la mitigazione del rischio idrogeologico, procedendo all’aggiornamento delle mappe di pericolosità e del rischio alluvioni e dei Piani di Assetto Idrogeologico e all’applicazione delle direttive europee su acque (2000/60) e alluvioni (2007/60), a partire dalla costituzione delle Autorità di distretto.
- lanciare un chiaro segnale di stop a nuovo consumo di suolo e all’edificazione nelle aree a maggiore vulnerabilità e anche delocalizzazioni nelle situazioni a maggior rischio.
- privilegiare gli interventi di rinaturalizzazione e riqualificazione fluviale e dei versanti.{/AF}